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La storia di Dedalus: la cooperativa campana cresce e amplia i suoi servizi

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Nata a Napoli nel 1981, con lo scopo di intervenire nel campo dello sviluppo locale e delle problematiche connesse all'esclusione sociale, la cooperativa Dedalus - formata, tra gli altri, da sociologi ed economisti - si occupa soprattutto di flussi migratori, facendo della ricerca un ambito in cui l’interpretazione e la conoscenza del fenomeno si uniscono alla capacità di individuare opportunità e bisogni. Ma non solo. L’azienda campana, negli anni, ha allargato la sua attività, arrivando a gestire direttamente alcuni servizi rivolti alla persona e, in particolar modo, ai migranti. Come ci racconta in questa breve intervista Elena De Filippo, presidente di Dedalus.

 

Presidente De Filippo, ci parla un po’ della “sua” cooperativa?  

La sede principale di Dedalus si trova all’interno di un ex lanificio borbonico a Porta Capuana che, negli ultimi anni, ha visto crescere al suo interno diverse esperienze culturali, artistiche ed economiche. Un vero e proprio laboratorio sociale, animato dalla nostra cooperativa, costituita da 41 soci lavoratori, e da un gruppo di soggetti privati.  Sin dal 1989, Dedalus ha partecipato alla costruzione del movimento antirazzista a livello locale, con la successiva adesione al movimento nazionale rappresentato soprattutto dalla Rete Antirazzista. E questo perché abbiamo sempre avuto un certo tipo di approccio alla ricerca e alle attività che portiamo avanti, vissute guardando anche ad una dimensione politica. Ci terrei inoltre a dire che, dal 2007, la nostra cooperativa ha ottenuto l’accreditamento come ente formativo presso la Regione Campania.

 

Che cosa vi caratterizza di più? E quali sono i vostri punti di forza?

Visto che ci occupiamo soprattutto di flussi migratori, direi che anche le nostre attività, in termini di gestione dei servizi, guardano in particolare alla proposta e alla gestione di servizi rivolti alle persone migranti. Una “originalità” che, ancora oggi, caratterizza l’attività della Dedalus e che negli anni ha comportato una forte presenza, nella sua compagine sociale, di lavoratori con un background migratorio. Attori che, in alcuni casi, hanno acquisito un ruolo anche nella governance della cooperativa. Se poi dovessi indicare qual è il nostro punto di forza, punterei l’attenzione sul fatto che la cooperativa si presenta come un soggetto imprenditoriale democratico e collettivo, in grado di porsi in equilibrio tra solidarietà e mercato, restituendo potere alle persone e benessere alle comunità in cui opera. 

 

Ci dice qualcosa sui servizi che offrite?

I servizi che offriamo sono tanti. Qui, posso citarne soltanto alcuni: si va dagli interventi di prossimità e riduzione del danno rivolti alle aree della forte marginalità urbana alla promozione di interventi tesi a garantire a cittadini stranieri le pari opportunità di accesso al sistema di welfare locale, dalla gestione di due centri interculturali alle attività mirate a contrastare lo sfruttamento lavorativo nel settore edile e in quello agricolo. E potrei continuare ancora per molto…

 

Nel 1997 la Dedalus, che già aderiva a Legacoop, decise di entrare nel Consorzio di Cooperative Sociali Gesco. Quali erano le ragioni che vi muovevano?

Lo abbiamo fatto per aumentare la nostra capacità di intercettare risorse e possibilità di sviluppo e perché ne condividevamo l’impianto di fondo, che è quello di un Consorzio che cerca di costruire una soggettività politico-sociale in grado di determinare un cambiamento, promuovendo un welfare diffuso, integrato e consapevole della propria funzione pubblica. 

 

Nel tempo, pur mantenendo il vostro Dna, avete allargato il raggio d’azione. Qual è, oggi, l’area dei destinatari?

Ci muoviamo in diversi campi: violenza di genere, formazione, povertà educativa, inserimento lavorativo. In più, abbiamo deciso di “sconfinare”, coinvolgendo la cooperativa in processi di rigenerazione urbana. 

 

Il tutto nell’ottica di una “cultura dell’intervento” …

Sì, una cultura dell’intervento vista come “motore di cambiamento”, perché capace di intrecciare la presa in carico, qui e ora, delle persone, con la volontà di provare a rimuovere le cause che producono le difficoltà e i disagi delle stesse. Una cultura che ritiene prioritario costruire “alleanze”, nella consapevolezza della nostra insufficienza rispetto alla complessità dei fenomeni a alla multidimensionalità che sempre più spesso caratterizza le biografie e i percorsi delle persone in difficoltà. Da qui, la testarda e complicata ricerca di un’integrazione virtuosa con i soggetti e le istituzioni pubbliche, non solo per garantire il più possibile l’universalità di accesso ai servizi e alle prestazioni ma anche perché senza una relazione stabile con le istituzioni difficilmente le pratiche riescono a diventare politiche, configurandosi come sistema ordinario di welfare locale. 

 

Alla luce di quanto detto finora, come vede il futuro della Dedalus?

Non è facile rispondere. Mi verrebbe da dire che stiamo navigando in una sorta di “tempesta perfetta” e che per questo il rischio di imbarcare acqua e forse di affondare è elevato. Veniamo da anni in cui vi è stato un progressivo disinvestimento pubblico sui temi del welfare ed è altrettanto vero che oggi tale processo  subisce non solo un’accelerazione ma una rivendicazione politica e culturale. Appare abbastanza evidente  che a prevalere sia un’impostazione di welfare che rifiuta l’impianto universalistico delineato dall’articolato costituzionale, accompagnata dalla volontà di scaricare una parte rilevante del lavoro di cura sulle famiglie mettendo, come direbbe Ota De Leonardis, a profitto la sofferenza attraverso le privatizzazioni. Una direzione così netta da far percepire con evidenza come lo Stato abbia rinunciato a individuare tra le sue responsabilità prioritarie il garantire l’esigibilità dei diritti, tenendo per sé una funzione meramente contenitiva e assistenziale e piegando il resto alle esigenze del mercato. A ciò si aggiunge una lunga fase di propaganda sul terreno delle marginalità che ha modificato nel profondo l’approccio dell’opinione pubblica nei confronti dei poveri, dei differenti, dei marginali, verso i quali a prevalere sono troppo spesso l’indifferenza, il rifiuto e il rancore. Ma nonostante questa navigazione travagliata e pur non sottovalutando la portata della crisi che stiamo vivendo, ci pare di poter dire che la cooperativa sta tenendo la rotta e, addirittura, ne sta immaginando di nuove.

 

Per mantenere la rotta, quanto è importante per voi un progetto come Small2big?  

I benefici del progetto europeo Small2big si innestano in un processo di rafforzamento della cooperativa, non solo sul piano dei contenuti e delle attività ma anche su quello legato al modello organizzativo e amministrativo. Nello specifico, grazie a Small2big e a Cfi sarà innanzitutto possibile finanziare lo sviluppo e la sostenibilità dei progetti in cui siamo impegnati. Inoltre, l’utilizzo di questo strumento di finanziamento a lungo termine ci consentirà una maggiore elasticità di cassa e un abbattimento degli oneri finanziari. Infine, penso che verrà ridotto il rischio di tensioni di liquidità, che potrebbe compromettere lo sviluppo della cooperativa.

 

Ma, alla fine, che cosa significa essere una cooperativa? 

Essere una cooperativa significa sentire di contribuire all’esistenza e allo sviluppo di un’impresa collettiva che offre la possibilità di unirsi per perseguire un obiettivo comune, condividendo visioni, aspirazioni e responsabilità. Significa, inoltre, sperimentare e realizzare una forma di impresa alternativa al neo-liberismo, in grado di mettere al centro le persone e di tutelare il territorio e l’ambiente circostante, proponendo così un’ipotesi di sviluppo equo dal punto di vista sociale e ambientale.  Senza la conservazione e la rivendicazione di tale originalità rischieremmo di scivolare in una dimensione meramente prestazionale o, peggio, di finire per colludere con ipotesi contenitive del disagio o legate alla privatizzazione dei servizi. 

 

Andrea Bernardini